L’intimità che fa paura
Article de Laura Pigozzi
Dieci ragazzi si ritirano in una casa in campagna per sfuggire la pandemia. Immersi nella natura passano le giornate tra balli, giochi, cibo e racconti. Decidono per la vita, per il gruppo, per un’intimità fresca, lontana dalle case di origine. Il dispositivo di questa nuova intimità non è lasciato al caso, ma segue una regola precisa: ogni sera, ogni giovane inventa una storia che gli altri commentano. In una atmosfera di libera espressione creativa e di vita, dieci ragazzi, inventano dieci novelle per dieci giorni; a turno ogni giovane stabilisce l’argomento del giorno all’interno di un grande contenitore tematico che riguarda la capacità del soggetto di superare le avversità: ecco il congegno salvifico del Decameron.
Non è la prima volta che si parla del Decameron in questi giorni pandemici, dato che il libro di Boccaccio fu scritto dopo la peste che invase l’Europa nel 1348. Eppure, oggi, potremmo mai prendere sul serio un plot del genere? Sebbene si tratti di finzione, non ci sembrerebbe troppo irrealistico che dieci ragazzi contemporanei, a cui non abbiamo offerto una grande dimestichezza con l’organizzazione del quotidiano, se la possano cavare in un luogo isolato, lontano dalle famiglie, organizzandosi da soli le giornate in maniera concludente? Quanti hanno prodotto, in questi mesi di peste attuale, una forma di ritiro sociale collettiva altrettanto inventiva?
In Francia, alcuni giovani, all’inizio della pandemia del 2020, hanno deciso di confinarsi insieme. Invece di rientrare dai genitori, si sono fermati nella loro residenza universitaria: lo studente con l’appartamento più grande ha ospitato gli altri e ognuno ha messo in comune libri e risorse artistiche, dato che c’è sempre qualcuno che dipinge o suona, talenti d’aiuto nella vita collettiva. Così hanno trascorso i mesi con meno noia, ma soprattutto sviluppando tra loro un’intimità inedita. Durante la pandemia, invece di rifugiarsi nella casa famigliare, hanno scelto il gruppo dei pari, per «timore di triturarsi nel nero delle loro camere solitarie o di dover tornare a vivere dai genitori e confinarsi in loro compagnia» (“Le Monde”, 5/4/20). Questo caso è quanto di più affine alla strategia di sopravvivenza boccaccesca che io abbia reperito. Questi giovani francesi sono saliti agli onori della cronaca proprio per la loro soluzione inusuale, visto che la normalità, anche in Francia, è stata quella del ritorno all’ovile.
Parlare di intimità fuori dal famigliare è parlare di sessualità, dato che è la pulsione che circola e chiama alla vita il corpo di un giovane il momento di salvezza che dovrebbe attrarre fuori dal nido domestico. Su questo punto, purtroppo, non si può non rilevare una certa chiusura, una sorta di sessualità hikikomori, cioè pulsionalmente ritirata, che oggi colpisce anche molti ragazzi che hikikomori non sono, cioè che non vivono reclusi nelle loro camerette, isolati dal mondo. Tra gli adolescenti si è insinuata una vaga diffidenza verso l’amore: ciò conduce a una diffusa forma di inibizione del desiderio e al crollo di fiducia nella relazione intima giocata fuori dalla famiglia.
“L’intimità la si cerca ma non è necessaria” dice una diciassettenne parlando di sé e delle sue coetanee alle prese con quelli che si chiamavano “i primi amori”. A questa intimità vissuta in tono minore, fa da contraltare speculare quel narcisismo esasperato in cui i corpi delle adolescenti esplodono nella capitalizzazione delle immagini online. Sto parlando del sito OnlyFans, un social network in cui una ragazza, o un ragazzo, può condividere – solo con i propri fans paganti – materiali videofotografici che li ritraggono. È una piattaforma molto semplice, pubblicizzata anche su Instagram, in cui ogni persona seguita costa all’utente un minimo 10 dollari per account non popolari. I contenuti inclusi nell’abbonamento base hanno lo scopo di invogliare i fans a pagare di più per video sempre più personalizzati. Non possiamo liquidare questo fenomeno come una semplice migrazione della prostituzione sul web, dato che riguarda studentesse e studenti che vivono in casa e giovani che non hanno la capitalizzazione del proprio corpo come unica possibilità di sopravvivenza.
È evidente che la caduta di fiducia nella funzione umanizzante dell’intimità non è colpa del web, ma il web offre un diaframma perfetto. Un ragazzo racconta: “La mia ragazza è timida, ma quando siamo in chat si scatena davvero tanto e a me piace moltissimo”. Insomma, un erotismo online da imene intatto, in cui il desiderio di penetrazione appare sfumato, forse per evitare, nei maschi, il sorgere di angosce relative alla potenza e, nelle femmine, la paura di un’insopportabile invasione, particolarmente in quelle che hanno già subíto un’intrusione della famiglia nella loro vita. È possibile che la minore implicazione con un soggetto appartenente alla comunità dei pari dipenda dal fatto che l’intimità dell’adolescente sia già stata saturata, e in alcuni casi sequestrata, dal plusmaterno familiare, da quell’eccesso di intimità domestica che oggi invade i ragazzi. La verginità protratta troppo a lungo o gettata via per sbarazzarsene senza attendere una relazione fatta di intimità e di scambi psichici più maturi a cui non ci si sente pronti, sono variabili di un corpo che resta bambino, che non entra nella vita, che non ha sviluppato alcuna fiducia nel mondo e che, infine, non lascia la casa né emotivamente né praticamente.
In fatto di intimità negata, conviene parlare di un fenomeno diffuso in Giappone e che, attraverso le serie Anime, è conosciuto anche in Italia. Là è popolare, tra le ragazze giapponesi, frequentare luoghi specializzati come l’Ikebukuro di Tokyo, una sorta di biblioteca di fumetti dedicati agli amori gay in cui ragazzi bellissimi, dai lunghi capelli, sono protagonisti di storie romantiche, con tanto di rotture e riconciliazioni – storie diverse dai manga che si rivolgono specificamente ai gay e costruite invece per il pubblico di queste ragazze (fujoshi). La passione femminile per questo genere di manga (Yaoi) si può paragonare a quella, ipogea ma radicata, delle ragazzine occidentali per le serie Drag Queen. In entrambi i casi si tratta di un’esplorazione del mistero della sessualità e della seduzione che fa un giro piú lungo, filtrato e meno diretto ma che suggerisce una distanza presa per favorire sia una iperprotezione che un ipocoinvolgimento. Le ragazze si possono identificare, ma in forma mediata, visto che, in entrambi i casi, i corpi degli attori sono maschili. Una di loro confessa: “Innamorarsi richiede un sacco di energie e io non ho energie al momento”. Un livello vitale basso, la messa in campo di una contro-intimità e di una distanza che manifesta la paura di essere toccati da una passione amorosa, distinguono una generazione in cui l’adolescenza, come spinta pulsionale verso l’esterno, verso l’incontro, sta precipitando anche per i ragazzi occidentali che, come quelli giapponesi, cominciano a sentirsi a disagio con l’intimità. Giocata spesso tutta in famiglia, faticano nel riconoscere all’intimità con un pari uno statuto di incontro significativo. Al pari di hikikomori e fujoshi, i nostri giovani, sempre piú claustrati – lo erano già prima del ritiro pandemico – entrano nel processo di sessuazione con ritardi e difficoltà, utilizzando quelle strategie di evitamento che abbiamo visto e che non implicano un’intimità psichica.
Stralunatom è il personaggio adolescente delle strisce di Major Tom – forse un implicito omaggio a David Bowie –, molto popolare tra gli adolescenti. In una di queste, l’adolescente Stralunatom, completo del suo casco da astronauta che lo isola dal mondo, che lo atom-izza, si stiracchia davanti alla finestra mentre fuori piove e dice: “E anche oggi ho una bella scusa per non uscire. Quando hai esaurito tutte le tue giustificazioni per evitare la vita sociale, ecco che arriva l’aiuto dall’alto”. Il corona virus ha esaudito non pochi tra loro.
Una sorta di anoressia dell’intimità contagia i nostri adolescenti e li preserva da ciò che ogni intimità comporta: la perdita. Incontrare intimamente l’altro è giocarsi, perdere una parte del proprio narcisismo, accogliere le istanze di chi è diverso da sé, essere capaci negoziare con lui. Ciò implica non essere più nella “servitù” verso l’Altro primitivo, essere cioè usciti dalla posizione che ogni bambino mantiene verso il seno materno. La perdita è il grande rimosso dell’attuale discorso capitalista che tratta ogni cosa come un bilancio e che si gode per primo, capitalizzandoli, i suoi “bambini”, individui gaudenti di tutto e deprivati di ogni segno umanizzante della perdita. Il consumatore si incolla all’oggetto come il neonato al seno, in una società in cui, fin dalle nursery, l’ingiunzione del sociale è allattare l’umano, preferibilmente a oltranza. Il seno capitalista, dallo zampillìo senza fine, mantiene gli uomini nella prima dipendenza, luogo in cui l’intimità si confonde con la perversione dell’essere amati perché ubbidienti e passivi. Ecco perché poi, ad un certo momento, l’intimità fa così paura.
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Publié dans la revue “Doppiozero“
Illustraziones di Marion Fayolle.